Al giorno d’oggi si fa più fatica a riconoscere la distinzione tra l’artista e il non esperto produttore di immagini.
La tecnica sofisticata accessibile a tutti perché automatizzata ha teso dei tremendi tranelli alla figura dell’artista in quanto tale.
Ma questo come è accaduto?
Prendiamo per esempio la storia della fotografia…
Fino a una cinquantina di anni fa, il fotografo era un personaggio in grado di gestire con precisione chirurgica il processo fotografico, dallo scatto alla resa finale. Conosceva alla perfezione le leggi fisiche legate all’ottica che servivano per ottenere un’immagine corretta, bilanciata ed esteticamente accattivante.
Il fotografo aveva inoltre l’esigenza di imparare ad usare le sostanze chimiche in camere oscure, ambiente alchemico con magie interne. Tutto questo arricchiva la sua professionalità e gli donava una dose di sapienza del fare e del cogliere l’aura visiva solo a lui peculiare.
Con l’avvento della Kodak il discorso cambia…
Kodak rende accessibile lo strumento fotografico a tutti, inventando un dispositivo che non prevede l’essere esperti del processo fotografico.
Il celebre slogan di Kodak, “Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto” rende chiaro l’inizio folgorante dell’automatismo in ambito fotografico che comincia a sottrarre unicità alla figura del fotografo.
Basta un click per far funzionare la macchina fotografica da sola…
Prima del digitale c’erano molti laboratori fotografici che sviluppavano le immagini!
Con l’invenzione della polaroid anche i dispositivi di sviluppo si automatizzano. Il processo diventa istantaneo e anche il non esperto può assistere alla magia dell’immagine che si rivela subito di fronte ai suoi occhi.
L’industria rende sempre più maneggevole lo strumento e ne facilita i processi. Da lì a poco tempo l’invenzione del digitale intensifica e accelera gli automatismi alimentando il bisogno smodato di fotografare e accumulare sempre più immagini.
Le immagini vengono prodotte per trattenere spezzoni di vita che andrebbero perduti, per fermare dei momenti che rappresentano qualcosa di forte per l’individuo.
La macchina fotografica crea la sindrome del turista, colui il quale immortala tutto ciò che vive e incontra senza filtri. La bizzarria è che il viaggio non serve per fare esperienza e vivere il luogo, quanto più serve per andare a fotografare tappe prestabilite da esibire e condividere.
Mentre si fotografa ci si concentra nel fare la bella foto, più che nel vivere il momento presente. Gli scatti che ne risultano, passati in rassegna in un secondo momento, saranno osservati senza coinvolgimento ed emotività.
Negli ultimi anni si ha una esasperazione di questo processo. Si sente sempre più forte l’esigenza di raccogliere un numero maggiore di frammenti della nostra esistenza.
Al manifestarsi di un evento importante si materializza l’incubo di accumulare infinite carrellate di immagini per rendere partecipi gli altri della propria vita. Perché? Solo esclusivamente per l’unico scopo di MOSTRARE.
Questa esasperata produzione di immagini è avvenuta per il passaggio dall’analogico al digitale. Se l’analogico prevedeva limitazioni di pellicola, il digitale non ha più un numero di pose ridotto a disposizione. Si può fotografare liberamente quanto si vuole. E la fotografia si può trasformare addirittura in video grazie ai nuovi telefoni multifunzionali.
Più lo strumento si smaterializza, meno si fotografa con un’idea precostituita: non ci si pone più il problema dell’aspettativa e della scelta di prendere lo strumento in mano per determinati scopi. Lo si fa e basta. Senza un motivo che lo giustifichi. Ma in questo modo si perdono completamente progettualità e intenzionalità nel fare.
La macchina digitale compare inizialmente come macchina tradizionale con un mirino. In seguito, oltre al mirino, si accompagna il visore, cioè lo schermo per vedere le immagini istantaneamente senza aspettare il tempo di sviluppo. Questo cambiamento è sostanziale: se guardare il mirino prevede che tra il mio occhio fisico e la macchina non ci sia distinzione di intenti, guardare il visore implica che il mio sguardo sia separato completamente dallo strumento meccanico. Mentre la macchina fotografa, io guardo distanziato tramite il visore. La macchina si stacca dal corpo umano per diventare altro, un corpo a se con una sua autonomia da cui però si è fortemente dipendenti. Si diventa, con un processo dalla velocità inverosimile, critici che scelgono tra le immagini, supervisori che decidono quale siano le migliori e scartano le peggiori istantaneamente con un click.
Con l’evoluzione del personal computer si è aggiunta un’altra protesi di noi stessi.
Negli anni, il pc, che raddoppia l’esistenza in molti modi, con archivi testuali, musicali, e iconici, è diventato esoterico, un elettrodomestico a tutti gli effetti al pari della lavatrice. INDISPENSABILE. In realtà non conosciamo bene i processi che lo fanno funzionare, ma ci accontentiamo di attivarli illudendoci di averne il pieno controllo.
Con un pc in mano, anche il non esperto riesce a produrre buone immagini utilizzando software grafici automatici, si abitua a pensare di essere creativo perché sa usare bene Photoshop, oppure sa abbinare i colori o ha un discreto gusto per la composizione.
L’arte deve prendersi un nuovo spazio… Dice…
Se il mondo sta cambiando per un abuso sfrenato di strumenti sempre più nuovi e sofisticati, se i nuovi media stanno aprendo frontiere a tutti, omologando e distruggendo i particolarismi e appiattendo le caratteristiche che ci rendono l’uno diverso dall’altro, l’artista deve prenderne atto, facendo proprie le nuove tecnologie e utilizzandole, quando servono, nel suo linguaggio personale.
Al di sopra di tutto deve però evitare di convincersi che la sua figura sia stata usurpata del suo ruolo specifico.
I risultati delle ricerche di un vero artista si distingueranno sempre da quelli prodotti dalla massa per la particolare finezza di sguardo sulla realtà. E’ proprio la differenza di sguardo che permette di scindere tra la figura dell’artista e quella del non esperto produttore di immagini.
Una volta il mio ex professore di digital video ci disse queste parole che ho annotato pari pari in uno dei miei taccuini e riporto qui sotto:
Voi, futuri artisti o creativi, farete parte del jet set o sarete altro? Creerete arte di intrattenimento o arte impegnata?
Io vi consiglio di abbracciare la figura del criptoforo a livello metaforico.
Ma chi è il criptoforo? Colui il quale alloggia in un sotterraneo, che sta nell’ombra, custode di qualcosa. Come Duchamp, che per vent’anni, ha lavorato in segreto!
E allora per voi è tempo di essere custodi, di ritornare al passato trovando una nuova strada. È tempo di conservare le tradizioni che vanno ormai a scomparire.
Siate artisti criptofori come possibilità di salvezza dalle tre M di oggi: Moda, Momento, Mentalità.
Moda: adeguamento al consumismo e all’insoddisfazione che ne genera.
Momento: appiattimento sul presente senza progettualità.
Mentalità: costruzione di una personalità artificiosa.
Essere criptoforo significa non essere schiavi di queste tre M.
Quindi aggiratevi nell’ombra dei vostri pensieri, immergetevi nelle tre M senza esserne succubi e traete da esse ispirazione per la creazione dei vostri lavori!
E allora partorirete immagini come i non esperti che si credono artisti, ma opterete per la qualità piottosto che per la quantità, farete per voi stessi e per trasmettere qualcosa agli altri più che per mostrare, prenderete in mano la macchina fotografica con un’idea di progetto, non con la mente vuota.
Le vostre immagini spiccheranno per ricerca, spessore e saranno portatrici di senso, figlie di sguardi che sanno guardare veramente!
Artisti Criptofori Avanti!!!!
Stay tuned!
Immagine: Marcel Duchamp, Underwood